È già da mesi che circolano infiniti meme che tentano invano di ironizzare su questo fantastico 2020 paragonandolo a personaggi odiatissimi delle serie tv o altri cataclismi e rotture di cazzo, e se i primi due o tre meme erano fin divertenti, al quarantesimo iniziano francamente a quadrettare i coglioni.
Eppure, dopo quest’ultima settimana, non riesco a fare a meno di pensare che questo fottuto 2020 è veramente una merda avvolta in cellophane.
Non bastava una pandemia globale, l’impossibilità di vedere la famiglia per un anno, l’aver trascorso almeno metà dell’anno in bilico su un filo, ritrovando l’equilibrio a giorni alterni, dopo aver osservato il precipizio da molto vicino. No.
Adesso, a 10 giorni dal Natale – un Natale del cazzo e lontana da casa (sia quella della mia famiglia che la mia attuale) – tutti i turni di P. sono stati totalmente modificati dal giorno alla notte, e se prima faceva una settimana di lavoro e una a casa, una di lavoro e una a casa, adesso avrà un bell’orario del cazzo con tre giorni di lavoro, due a casa, quattro di lavoro, quattro a casa, ecc.
Considerando che il suo luogo di lavoro si trova a tre ore d’auto dalla nostra casa, potete ben capire che ci hanno praticamente sfanculato l’esistenza.
Le belle notizie del venerdì pomeriggio.
E così il sabato e la domenica li ho trascorsi in un vortice di autodistruzione, incastonata sul divano a vedere un episodio dopo l’altro di YOU (così, giusto per mantenere alto l’umore), mangiando le quattro minchiate che avevo in frigo perché di uscire di casa non mi andava e di fare la spesa ancora meno. E P. ed io abbiamo parlato, discusso, pianto, rigorosamente per telefono. Aspettiamo che ti trasferiscano in un centro di lavoro più vicino a casa? Ti licenzi? Ci lasciamo? Ti amo? Mi ami?
Una meravigliosa montagna russa emotiva, culminata con un sabato sera trascorso china sul cesso a vomitare tutto il pranzo, perché lo stress io li mangio boccone per boccone che poi intanto ci pensa lo stomaco a sputarlo fuori con la bile.
La questione è questa: P. è stato disoccupato per anni, è saltato da un impiego sottopagato a un altro per anni, con turni di 40 ore che sul contratto erano 20, ferie non pagate, stipendi di 500 euro per un full-time e altre meraviglie dell’attuale mercato del lavoro spagnolo incancrenito. Questo è il suo primo posto fisso e pagato decentemente, ed è comprensibile che lasciarlo lo spaventi.
Io, però, sono una stronza che cinque anni fa ha dato il salto ed è andata a vivere in un Paese straniero, e anche se ho avuto l’immensa fortuna di trovare lavoro prima di trasferirmi e mi trastullavo da anni con l’idea di andare a vivere all’estero, il coraggio per dare il salto e la decisione di venire proprio qui, in questa città (che, diciamolo, non è proprio l’ombelico del mondo) l’ho trovato anche perché qui c’era lui, il mio fidanzato.
Sono passati 5 anni, e l’idea di mollare di nuovo tutto e raggiungere lui mi risulta inaccettabile. Non solo per il mio lavoro, che sebbene sia privo di senso è comunque un lavoro della madonna che mai nella vita avrei pensato di trovare, ma soprattutto perché mi sono costruita a fatica una vita, delle abitudini, delle amicizie, e se la me del 2015 aveva voglia, in parte, di rimescolare le carte e partire da zero (e pure avendone voglia non è stato un cazzo facile), la me di adesso non se la sente proprio.
Ecco, tra sabato e domenica pensavo a tutte queste cose, e non mi abbandonava l’immagine di me stessa, trentunenne, single, davanti a un crocevia:
a) rimango qui mantenendo il mio lavoro e le mie amicizie anche se questo significa rimanere lontana dalla mia famiglia e in un luogo che, inevitabilmente, non potrà che ricordarmi lui?
b) torno a casa di mamma e papà a vivere in cameretta, a lavorare (se va bene) al centro commerciale di provincia e a passare il sabato con delle amiche che, con tutto il bene che voglio loro, hanno la propria vita che è proseguita in mia assenza per 5 anni?
La cosa migliore, poi, è stata fingermi calma con i miei genitori, perché P., privo di una figura genitoriale non psicotica, si è rivolto a mio padre per avere un consiglio, senza tenere conto del fatto che mio padre si sarebbe ansiato e, di riflesso, pur senza volerlo, avrebbe ansiato me.
Fortunatamente Ali mi ha “forzato” ad uscire di casa, bere un caffè al bar, sfogarmi circa il tema e al contempo parlare di stronzate, di maschere per capelli e di serie tv, giusto per uscire per qualche minuto dalla melma del mio cervello e far entrare un po’ di ossigeno.
La conclusione alla quale sono/siamo giunti è che P. cercherà lavoro qui come un matto e cercheremo di tenere duro in attesa di un suo trasferimento, il più a lungo possibile, mantenendo però aperta l’opzione di chiedere una aspettativa, se stare distanti per così tanto tempo diventasse realmente insopportabile.
L’altra conclusione alla quale sono giunta, invece, è che ‘sto cazzo di 2020 ha veramente rotto i coglioni, ma dubito moltissimo che il 2021 possa rivelarsi migliore.
Besos, Deli