Questa mattina mi sono svegliata con il rumore scrosciante della pioggia, e anche se adesso non piove più, il cielo è ancora plumbeo e l’aria che entra dalla finestra è fresca.

Ieri ho avuto una giornata lavorativa molto intensa: la mia collega ed io dobbiamo consegnare vari lavori entro la fine della prossima settimana, ma puntualmente riceviamo altre richieste “urgenti” che ci obbligano a mollare lì tutte le nostre occupazioni e dedicarci ad altro. Risultato: ieri entrambe abbiamo lavorato mezzora oltre il nostro orario (nel mio caso questo vuol dire che ho finito di lavorare alle otto di sera) e siamo riuscite a consegnare l’ennesimo lavoro urgente e richiesto all’ultimo minuto.

Oggi, quindi, siamo tornate entrambe a dedicarci ai lavori da consegnare entro la fine della prossima settimana, ed io mi sono anche ritagliata un po’ di tempo (più che necessario) per mettere ordine nella casella di posta e tra i file del computer. Infatti, uno dei problemi dello smartworking è che ci si ritrova con il proprio PC stracolmo di file e, se si è disordinati come me, questi file si trovano un po’ ovunque: nella cartella dei download, sul desktop, ecc.

Tralasciando i mille file accumulati sul PC, un altro aspetto dello smartworking che è risultato piuttosto sgradevole per me e per la mia collega è stata la sparizione degli orari lavorativi. È capitato, infatti, che diversi colleghi inviassero richieste, più o meno astruse, a qualsiasi ora del giorno e della notte (nei week end, nel corso delle ferie [in 15 giorni di ferie abbiamo ricevuto richieste praticamente 13-12 giorni], a mezzanotte e mezza di un venerdì). Qualsiasi richiesta, ovviamente, veniva etichettata come “urgente”. Inizialmente abbiamo risposto, tentando però di fare presente che era necessario che imparassero a differenziare tra ciò che è realmente urgente (per esempio una circolare relativa al virus) e ciò che non lo è (per esempio una newsletter che viene cestinata seduta stante da chiunque la riceva). Vedendo, però, che questa strategia non funzionava, abbiamo tentato direttamente di ignorare le mail, con tutta l’ansia che può provocare a un lavoratore il fatto di essere tartassato da varie richieste nel pieno delle ferie. Anche questa strategia è fallita, ahimè, perché in molti casi tali colleghi, vedendo che le loro mail inopportune venivano ignorate, hanno scritto direttamente al nostro capo, il quale ci ha avvisate su whatsapp.

Noi, però, abbiamo continuato ad insistere, sia coi colleghi che con il capo, facendo presente che a) è necessario differenziare tra richieste realmente urgenti e non b) quando si richiede un lavoro, bisogna specificare una data di consegna, anziché pararsi il culo con la parola “urgente” per poi poter girare il lavoro a terzi il prima possibile e fare la figura del primo della classe c) nei week end e nei festivi non si devono rompere i coglioni.

Una volta finite le ferie, c’è stato qualche altro debole tentativo di richiedere lavori per il week end, ma sono stati prontamente sfanculati, anche se non si può mai abbassare la guardia. Non per nulla ieri abbiamo regalato, tra le due, un’ora di lavoro, perché ci è stata richiesta la consegna in giornata di un lavoro che come minimo richiedeva il doppio del tempo per essere ultimato.

Lavoro a parte, questa settimana non è stata precisamente scoppiettante. Ho passato quasi tutto il tempo lavorando e con P. ed ho sentito un paio di volte la Ali. Non ho parlato con i miei, quindi credo che li chiamerò stasera o domani. In settimana dovrei anche parlare con l’amico di oltremanica, che era saturato di lavoro fino ad oggi e da domani dovrebbe essere disponibile. Claire mi ha proposto di uscire martedì prossimo, la mia prima uscita ricreativa con una persona estranea al mio nucleo domestico in più di due mesi. Credo che accetterò, anche se al bar chiederò un succo o una qualsiasi bevanda imbottigliata per non bere da una tazzina toccata da possibili untori.

Per il resto, non faccio ginnastica dal week end, ad esclusione di una lunga passeggiata fatta martedì. Tralasciando la solita pigrizia, è tornato a presentarsi un problema fastidiosissimo che mi era già capitato in passato: una cisti infiammata, causata da un pelo incarnito, nella zona inguinale. Praticamente è come ritrovarsi, dal giorno alla notte, con un mini testicolo dolorante. Fa male da seduta, fa malissimo al camminare e ogni volta che la si sfiora si vedono le stelle. Questa cosa mi era capitata alcuni anni fa, e poi era successa nuovamente proprio a ridosso della crisi coronavirus. Il medico mi aveva prescritto antibiotico per via orale e in crema, e poi mi aveva terrorizzata dicendomi che con la cura farmacologica le opzioni erano due: o la cisti si riassorbiva o scoppiava, nel qual caso avrei dovuto andare al centro medico per farmela spremere come un mandarino da una infermiera.

Ovviamente, manco a dirlo, la cisti è esplosa, e con la faccia di una persona che si avvicina alla ghigliottina sono andata all’infermeria del centro medico pronta a soffrire le pene dell’inferno. L’infermiera, però, si è limitata a applicarmi una crema e tonnellate di garza, e a dirmi che in pochi giorni la cisti sarebbe sparita.

In effetti, così è stato, ma ora ne ho un’altra. Da brava personcina vile che teme i medici, e con la scusa del virus che rende potenzialmente pericoloso qualsiasi centro medico, ho affrontato il problema cercando informazioni su internet, autodiagnosticandomi, ed infine assumendo gli antibiotici avanzati dall’ultimo trattamento. Ieri notte la cisti è esplosa ed ora non provo più dolore, anche se continuerò con l’antibiotico per scongiurare eventuali infezioni.

Mi auguro di risolvere presto il problema, anche perché mi restano 4 sessioni di laser già pagate profumatamente, e ovviamente non posso andare a farmi sparaflashare i peli finché ho bubboni inguinali.

Besitos, Deli

Acida come uno yogurt scaduto

In questi giorni diciamo che sono un tantinello irritabile, ma giusto un pelino eh? Sono vagamente rompicoglioni, tipo il semino della fragola incastrato in uno dei molari, o la pietrolina che si infila dentro la scarpa, o lo spigolo del mobile che sfracella il mignolino del piede.

Motivo?

Non saprei dirvi con esattezza. Una volta un amico mi ha detto che trova immaturo, una volta passati i trenta, continuare ad appioppare ai propri genitori la colpa di tutte le cose che non vanno in noi, e trovo che abbia ragione. Prima o poi è necessario crescere ed assumersi le proprie responsabilità.

Tuttavia, non posso evitare di vedere il riflesso, nei miei atteggiamenti, degli atteggiamenti dei miei. La strafottenza di mio padre, che rare volte ha una parola buona per qualcuno, ma normalmente preferisce prendere tutti per il culo e farli passare per deficienti, trasecolando se poi la vittima di tali derisioni si incazza e tacciandola di “permalosa”. E l’intransigenza di mia mamma, che vede tutto bianco o nero e nessuno la schioda da lì, zero elasticità. Inutile dire che mi sono scontrata, e continuo ad avere dei problemi irrisolti, con questi loro atteggiamenti.

Tuttavia, devo ammettere che pur avendo lottato contro questi aspetti del loro carattere, li ho anche interiorizzati.

E sebbene la causa di questa irritabilità sia sconosciuta, ne conosco benissimo le vittime.

La prima vittima designata, ovviamente, è P. Gli rimprovero le ore passate davanti alla play, i piatti che non lava mai (e fin lì, avrei anche le mie ragioni) e in men che non si dica mi infastidisce che mi parli mentre lavoro, mi irritano le cose che dice, le coltri di fumo che riempiono il salotto (sebbene sia fumatrice a mia volta, ma non incallita quanto lui). Per non parlare dei due cani: proprio non me ne faccio una ragione di dover tenere due cani in un appartamento contro la mia volontà.

Persino Ali, ieri, mi ha innervosita, con le sue chiamate sempre uguali su Skype in cui a volte non chiede nemmeno come sto e parte diretta raccontandomi gli aneddoti delle sue lezioni di inglese e raccontandomi per filo e per segno tutta la trama degli ultimi film e serie tv visti. Se volessi sapere di cosa tratta Supernatural vedrei la serie, non credi?

Ecco, percepite l’acidità che trasuda da me e, per osmosi, da questo post?

Quando sto così, ovviamente, il desiderio preponderante è quello di isolarmi. In parte perché qualsiasi essere vivente (gatto escluso) mi provoca irritazione, quindi farei anche a meno di averlo intorno. E in parte per altruismo, se così lo vogliamo chiamare, dato che mi rendo conto di essere gradevole quanto una trave in culo ed incapace di controllarmi.

Oggi, per esempio, ho un mezzo progetto di andare a fare una passeggiata con Ali dopo il lavoro (ah sì, qui siamo entrati in una nuova fase pandemica per cui da oggi sono consentite le riunioni sociali di meno di 10 persone [sempre mantenendo le distanze, indossando mascherina e guanti, ecc.] ed è possibile uscire [solo in certi orari] anche con persone che non convivono con noi; questo è quello che Ali mi ha detto, io non seguo nessuna notizia quindi se non fosse per lei vivrei murata in casa fino al 2040, probabilmente). Ieri, invece, sono andata a spasso con P., fermandomi ogni 3 minuti perché uno dei cani aveva cagato/pisciato/deciso di provare a mangiare qualche porcheria/deciso di annusare una pozzanghera di pipì altrui.

Ed ecco, non esco con nessuno da due mesi, ma la voglia di non confermare l’uscita con Ali e di indossare le mie nuove cuffie wireless (dovrebbero arrivare oggi con Amazon) e camminare da sola, fino a farmi venire il fiatone, senza dovermi fermare perché a lei fa male la pianta del piede o perché uno dei cani ha deciso di fare un’esplorazione anale a un barboncino è grande. Grandissima.

Non ho molti lettori, ma vi chiedo con tutta l’ingenuità del mondo: succede anche a voi di sentirvi così? Di non voler avere nessuno tra le scatole, di irritarvi per ogni notifica sul cellulare e di desiderare ardentemente silenzio e solitudine?

A scriverlo non sembra un sentimento così astruso e inumano, eppure quando lo sento scorrere in ogni fibra del mio corpo mi sento un po’ colpevole e fondamentalmente stronza, per dirla con finezza.

Hello darkness, my old friend

Per la prima volta da quando questa maledetta storia del virus è iniziata, ho pianto.

Ho avuto, ovviamente, vari momenti di sconforto, principalmente di preoccupazione, dall’inizio di questo brutto periodo, ma oggi sono proprio scoppiata in lacrime davanti al computer senza nessun imput specifico.

Mi sono semplicemente sentita impotente, bloccata, rinchiusa, incerta circa il mio futuro. La testa continua a ostinarsi sui soliti pensieri: quando tornerò a casa dai miei? Quando rivedrò mia nipote? Queste domande rimbombano senza sosta nella mia testa, e anche se in certi momenti riesco a coprirle con un assordante silenzio, lavorano dal dentro, si riflettono in ogni fibra del mio corpo e fanno pulsare le tempie, contraggono i muscoli dell’addome, fanno digrignare i denti.

Passo le serate vedendo qualche serie tv scadente, mi ritiro a letto troppo tardi e fatico a prendere sonno. Mi noto accaldata, inquieta, la testa sempre scomoda sul cuscino, pur cambiando posizione 100 volte. La mattina apro gli occhi ore prima della sveglia, cerco di riprendere sonno ma gli occhi sono sbarrati, feriti dalla luce del giorno che filtra dalla persiana socchiusa, e ricomincia il solito tran-tran domestico, tra le mie 4 mura.

Da una settimana a questa parte mi sono anche stufata delle mille ricette, gli esperimenti culinari e gli impasti per la pizza. Un po’ di affettato iberico in un vassoio di plastica e un po’ di pane, e mi ritrovo a masticare un panino senza nemmeno gustarlo.

L’unica cosa che sembro assaporare realmente con piacere è il caffè decaffeinato del mattino.

Che dire? Un momento di merda, come immagino stia accadendo a moltissime persone in questa congiuntura storica del cazzo.

E allora, che si fa?

Si tira avanti, pa’ lante, come dicono qui in Spagna. Scrivendo un post delirante sul blog, per esempio, o indossando le scarpe da ginnastica risalenti alla guerra del ’15-’18 per fare mezz’ora di aerobica e sputare sangue e magari sciogliere qualche tensione, sottrarre energia al corpo per mettere a tacere questa mente così ostinata, che continua ad arrovellarsi attorno a problemi senza risposta. E se qualche pensiero negativo dovesse rimanere appiccicato, laviamolo via con una bella doccia, insieme al sudore.

Besos, Deli

La mamma di P. è in ospedale. L’ho saputo ieri notte verso l’una e mezza, dalla di lui sorella. Non si trova in ospedale per il Covid, ma per una infezione. Tuttavia, la situazione è allarmante perché ha una grave e rara malattia che intacca fortemente in sistema immunitario, quindi saperla in ospedale, uno dei focolai della diffusione del maledettissimo virus, non è per nulla tranquillizzante. Pare che dovrà rimanere lì per 4-5 giorni, per vedere come far regredire l’infezione che non si è placata nemmeno con gli antibiotici.

Inutile dire che ho passato la notte rigirandomi nel letto come una disgraziata, in preda a vampate di calore e incapace di dormire. Ero preoccupata per svariati motivi: 1) La situazione di salute della mamma di P. 2) L’ostinata intenzione della mamma di P. e della sorella di mantenere P. all’oscuro della situazione, per timore che si agiti eccessivamente. Non mi piace per niente questa omertà impostami da loro nel comunicarmi i fatti e nel chiedermi di non renderne partecipe P. 3) La sorella di P., ventenne, ha un figlio di un anno e mezzo; il padre della creatura si è rivelato utile quanto il cinese dei Black Eyed Peas come figura genitoriale (e la cosa non ha sorpreso nessuno, conoscendo l’elemento), ergo il bambino e la madre vivono ambedue a casa della mamma di P.. In questi mesi di confinamento, la sorella di P. ha dovuto continuare a lavorare, e per evitare di contagiare la madre di P. (che è, appunto, una persona ad alto rischio), si è temporaneamente trasferita in una stanzetta vicino al lavoro con una collega, mentre la madre di P. si è occupata del bambino. Ergo, la sorella di P. ora deve continuare a lavorare in fabbrica, ma la madre di P., per ovvie ragioni, non può occuparsi del bambino.

Dei tre problemi precedenti, ho risolto solo il numero 2, giacché alla fine, dopo le mie insistenze, la sorella di P. ha informato P. dell’accaduto. Il poveretto è molto preoccupato ma, come ho detto anche a lei, io che vivo a 3500 kilometri dalla mia famiglia preferisco venire informata di qualsiasi cosa che possa accadere ai miei cari, sebbene sia lontana e possa fare poco o nulla. E so che anche per lui è così.

Per quanto riguarda la salute della madre di P., non sono riuscita a parlarle, pare che in ospedale non ci sia copertura, ma la sorella di P. mi riferisce che sta bene, non ha avuto febbre o altre complicazioni e la zona colpita dall’infezione non le fa più tanto male come nei giorni precedenti.

P., tuttavia, non si fida, e ritiene che la madre e la sorella, ma la madre soprattutto, tendano a sminuire l’entità della cosa per cercare di non agitarlo ulteriormente. Io, francamente, non so che pensare.

Infine, c’è la questione bebè. Ho chiesto a P. come posso aiutarlo, e mi ha detto di cercare di aiutare la sorella, dato che si trova sola con il bambino. Le ho proposto di lasciare il bambino a casa con me quando dovrà rientrare al lavoro (domani), sebbene l’idea di stare a casa da sola con un bambino piccolo per 72 ore mi atterrisca enormemente. Non ho fratelli o sorelle piccole (la piccola di casa sono io), e sebbene abbia una nipote che amo e che adoro e con cui ho passato molto tempo quando era più piccina, io sono sempre stata la zia con cui giocare alle barbie o a fare i puzzle. Non eravamo mai a casa da sole, c’era sempre mia mamma o mia sorella. Non so una cippa di pappette nutrienti, pannolini (ne ho cambiati 3 o 4 in vita mia), e a dirla tutta non c’ho neanche tutto sto istinto materno. Infine, sono probabilmente la persona più ansiosa del pianeta terra, il che vuol dire che bambino (per me) = pericoli. Insomma, già mi vedo il bambino scorrazzando per casa e mettendo le dita nelle prese della corrente, e scassando la minchia al gatto finché questi non si stuferà e gli estirperà un occhio a suon di graffi. Quando e se mai avrò progenie passerò la vita a inseguire la sciagurata creatura mettendola in guardia circa i terribili pericoli di questo mondo, temo.

Ad ogni modo, la sorella di P. sembra decisa a portare con sé il bambino nella stanzetta in affitto, e a lasciarlo alla collega durante il turno lavorativo. Non solo ha declinato la mia offerta di ospitarlo (formulata, ovviamente, omettendo le ansie e paturnie di cui sopra), ma anche l’analoga offerta di suo zio e sua zia, due persone mature che hanno già allevato con successo una bambina che ad oggi è una giovane ragazza in ottima salute.

In un vano tentativo di essere utile e di fare sfoggio di una specie di altruismo materno benevolo, ho provato a proporle di portarle una tortilla de patatas per pranzo, di modo che non debba cucinare, ed infine mi sono offerta, se davvero decide di portarsi il bambino nella stanzetta in affitto, di accompagnarla in auto (la giovane non ha la patente) per trasportare tutta la carovana di roba necessaria per prendersi cura del bebè.

Insomma, questo lunedì non è iniziato per niente bene. Spero solo di potervi dare buone notizie sulla mamma di P. nei prossimi giorni.

Per il resto, questo fine settimana lungo non è andato male: ho riordinato casa, ho letto un libro intero in una sola sera, ho fatto un ritratto (cosa che non avveniva da anni, l’ho già appeso in salotto), ho fatto 40 minuti di aerobica sputando sangue, ho chiacchierato con il vicino di casa dalla finestra e ho videochiamato i miei e la Ali. Tuttavia, ci sono stati alcuni momenti sgradevoli, soprattutto nel tardo pomeriggio, quando dopo ore e ore di televisione mi accorgevo di non avere assolutamente nulla da fare, che la casa era ordinatissima, che mi ero già dedicata a qualsiasi attività che si potesse svolgere tra queste quattro pareti. Di colpo era come se provassi una sorta di prurito, una voglia di qualcosa di indefinito, forse semplicemente la voglia di uscire, camminare senza sosta, parlare con qualcuno, andare al mare tutto il pomeriggio a farsi scottare la pelle dal sole e poi di sera spalmarsi pigramente una crema aftersun sul divano, vedendo un film d’epoca.

Ieri poi, un pensiero mi ha afferrata d’improvviso: la consapevolezza di non sapere quando potrò tornare a casa e vedere la mia famiglia. Il pensiero c’è sempre stato, lì, nel profondo, ma ieri è emerso in superficie ed ho iniziato davvero a chiedermi quando potrò prendere di nuovo un aereo, quando tornerò ad abbracciare i miei, o a salutarli a un metro di distanza con guanti e mascherina. Come dicevo, ci ho pensato spesso, ma ieri il pensiero era più insistente del solito, martellava a rimbalzava tra diverse ipotesi: vaccini, il caldo che stronca il virus, una cura, il clima autunnale che porta una seconda ondata, i sedili claustrofobici degli aerei, l’idea forse non così bislacca di una lunga odissea estiva in auto, fosse anche solo per vedere il giardino in fiore, per sentire i profumi di casa, anche da dietro a una mascherina.

L’ansia mi stava soffocando a tal punto che ho chiamato i miei, per vedere, anche solo dal cellulare, che sono sempre lì, per vedere uno scorcio di casa, il gatto che impasta le gambe di mia mamma chiedendole affetto, e devo dire che la chiamata è riuscita a calmarmi, a sedare il mio bisogno di prossimità.

Besos, Deli

Videogiochi

Non ne sono mai andata matta, fatta esclusione per un paio di periodi isolati in cui mi sono ossessionata con qualche videogioco assurdo e ho perso davanti alla console ore e ore, fino a provare ribrezzo verso la succitata console e me medesima, con conseguente abbandono del joystick.

Sono abbastanza predisposta a cedere ai vizi, videogiochi inclusi, ma fortunatamente i miei genitori non mi hanno mai regalato una Nintendo o una Play quando ero una bambina/ragazzina, e nell’età adulta i miei contatti con questi oggetti del demonio sono stati sporadici.

Il mio fidanzato, invece, passa ore e ore davanti alla Play. In principio giocava al Grand Theft Auto, per cui per ore e ore vedevo un personaggio tamarrerrimo correre per le strade della città in auto o in moto, e sparare a gente a caso. Poi c’è stato il gioco delle macchinine giocattolo, poi quello delle macchine vere e anche uno con le moto. Una breve parentesi col calcio, durata davvero pochissimo, è stata seguita da innumerevoli giochi in cui il personaggio deve prendere decisioni e interagire con altri personaggi. A volte l’ambientazione è simile a quella di Game of Thrones, altre volte si tratta di una storia pseudo-realistica in cui il giocatore interpreta un gangster.

Oggi, però, insospettita dalle parole “camion”, “retromarcia”, “mattoni” e via dicendo, mi sono avvicinata allo schermo. Praticamente sta giocando a un gioco in cui si guida un camion o una betoniera, e si trasportano materiali edili. Insomma, un mix tra un simulatore del mestiere del muratore e quello del camionista.

Quale sarà il prossimo gioco? Magari un simulatore del tizio delle consegne di Just-eat, o della giornata tipo dell’impiegato dell’ufficio postale?

Questa battuta mi è venuta in mente poco fa, e mi ha strappato un sorriso dopo una giornata davvero urenda. Sono stata un po’ troppo ottimista ieri, sperando che oggi mi sarei sentita meglio. Ieri sera, alle tre di notte, stavo ancora rigirandomi nel letto afflitta dalla tensione cervicale e dalle mille zanzare che ronzavano tra le mie orecchie. Guardavo l’ora e calcolavo mentalmente che mi restavano 5 ore di sonno prima di accompagnare P. dal meccanico per sostituire la batteria dell’auto. Alle 8 suona la sveglia, mi sfrego gli occhi gonfissimi e dico “Ma scusa, se usi le pinze per far arrancare la tua auto con la mia…a cosa ti serve che venga anche io dal meccanico?”. Concordiamo ambedue che in effetti la mia presenza non serve un cazzo, e cerco quindi di dormire per un’altra ora e mezza, con risultati inesistenti, ahimè.

Mi metto al “lavoro” ma la testa martella incessantemente e il collo è ormai un’entità a sé stante, con muscoli random che si muovono e contraggono a proprio piacimento contro la mia volontà. Verso le 12 e 30, quando ormai neanche le passeggiate virtuali alla ricerca di nuovi blog interessanti da seguire (ne ho trovati alcuni che non appena ne avrò voglia vi comunicherò, sempre che ci sia un qualche cristiano che mi legge) riusciva a distrarmi, notifico alla mia collega che sono in condizioni pietose e che trascorrerò il tempo rimanente prima della pausa pranzo e la pausa stessa a vegetare nel letto, nel disperato tentativo di riprendermi.

Finisco a letto, incapace di dormire, e rimango per un po’ a leggere vari blog mentre P. scende al bar sotto casa per comprarmi il pranzo, ma la mia pietanza da bar favorita (una specie di pasta brisé contenente pomodoro e un formaggio di capra sensazionale) è finita, e mi porta il sostituto con ripieno di pollo e besciamella. Addento per la prima volta questa pallida imitazione del mio amato rulo de cabra e constato che sa di piedi.

Il sant’uomo di P., che a volte sa essere un angelo salvifico ed è la creatura più amorevole del mondo, mi fa un toast con prosciutto e formaggio havarti, che è una pietanza del cavolo ma in quel momento per me è la roba più appetitosa del mondo. Mangio il panino a letto e tento nuovamente di dormire mentre ascolto un video di BarbaScura.

Al momento, dopo aver lavoricchiato per qualche ora nel pomeriggio, sto un pochino meglio, anche se continuo a notare una tensione assurda tra testa, collo e spalle e la casa è un porcile, giacché il buon P. è amorevole e dolcissimo, sì, ma se fosse per lui le lenzuola si cambierebbero una volta all’anno, i pavimenti non si laverebbero mai (persino ora che abbiamo il robottino, si rifiuta di scaricarsi l’applicazione) e i piatti andrebbero lavati solo in caso di emergenza (dove emergenza significa che non rimane più nemmeno una posata e un piatto pulito in tutta la casa).

E niente, i buoni propositi di ieri sono andati tutti a farsi benedire, ma la speranza è sempre l’ultima a morire ergo: BUONI PROPOSITI DI OGGI:

  • Fare una doccia calda per rilassare i muscoli
  • Rendere presentabile la casa
  • Fare una camminata in casa
  • Leggere un po’

Besos, Deli

Stica

La mia giornata lavorativa di oggi è stata la meno produttiva della storia. Otto ore religiosamente seduta davanti al computer di cui quattro a cercare disperatamente di concentrarmi sul lavoro, due leggendo articoli e blog di un decennio fa e altre due guardando lo schermo come un pesce lesso.

Questi momenti di fiacca mi capitavano spesso anche quando il lavoro era presenziale (prima della quarantena, per intenderci) ma quando succede rimanendo a casa mi sento più colpevole. Scaldare la sedia a casa mi pare più illecito che farlo al lavoro, a quanto pare.

Quello che ho notato, ad ogni modo, è che spesso e volentieri questi momenti di pigrizia assassina e mancanza di concentrazione coincidono col primo giorno di ciclo, o con i giorni immediatamente precedenti. Non me la sono mai passata benissimo in ‘quel periodo del mese’, ho sempre avuto i tipici crampi al basso ventre (fortunatamente quelli durano sempre molte poche ore, generalmente), ma nel corso degli anni la lista dei fastidi durante e prima del ciclo si è ampliata a dismisura:

  • Tensione nella zona cervicale che a volte è così intensa da provocare a) emicranie dolorosissime b) impossibilità di prendere sonno
  • Sonno disturbato in generale, incubi che ruotano attorno a traumi del passato o timori futuri
  • Stanchezza e spossatezza
  • Malumore
  • Pessimismo alla Giacomo Leopardi
  • Crisi di pianto immotivate
  • Occasionalmente cagotto e vomito
  • Pancia gonfia tipo Zeppelin
  • Irritabilità e desiderio di evitare qualsivoglia contatto umano

A livello lavorativo, come dicevo, non do di certo il meglio di me in questo frangente, anche se normalmente la presenza di lavori urgenti e scadenze prossime mi aiuta a usare le mie poche energie per fare il mio dovere (ma oggi non c’erano lavori urgenti, quindi stica).

Ma tralasciando l’ambito lavorativo, la cosa peggiore in questi giorni è la sensazione che la testa sia in stand-by, di non avere il controllo delle mie azioni e delle mie parole. Sento di non poter fare affidamento su me stessa.

Quindi, invece di fustigarmi troppo per questa giornata poco produttiva, cerco di farmi una coccola e di dirmi che il peggio (il primo giorno e la fase premestruale) per questo mese è andato, che da domani si riparte (forse) con le pile più cariche, e che per stavolta l’ho sfangata senza far pagare eccessivamente a chi mi sta intorno (ovvero P.) il prezzo delle mie paturnie, con conseguente senso di vergogna e svilimento.

Detto ciò, vado a fare una camminata di mezzora (per il corridoio, of course) e qualche addominale e magari mi faccio anche una bella maschera viso all’argilla, nel tentativo di assumere nuovamente un aspetto umano.

Besitos, Deli

Due post in due giorni!

Cosa più unica che rara, soprattutto da quando sono approdata qui. Ma del resto, mi annoio ed ho voglia di blaterare un po’, quindi torno a far ricorso alla solita pagina bianca.

In questo momento sono seduta davanti al PC, ho appena finito un lavoro e questo pomeriggio mi dedicherà alla sua revisione, sperando di poterlo consegnare domani. Sua Maestà il Gatto è in posizione pollo arrosto accanto al computer. Abbiamo trovato un compromesso ed ho posizionato una copertina pelosetta e morbida vicino alla tastiera, di modo che non passi la giornata calpestando tutti i tasti possibili e immaginabili.

Stamattina ho fatto un discorsetto al mio fidanzato, dicendogli che dovrebbe abbandonare alcune abitudini pessime per la salute (abuso di tabacco, ore ed ore a giocare alla Play o con videogiochi del cazzo sul cellulare) e che dovrebbe dedicarsi a cose più produttive. Così ha riordinato la cucina, ha messo a posto la camera de letto ed ha cambiato la sabbietta del gatto che ormai era piena di stronzini.

Purtroppo, però, temo che gli effetti del predicozzo non dureranno a lungo, e francamente non mi piace neanche troppo fare il predicatore evangelico. Ho sempre avuto ben chiaro che qualora avessi dei figli sarei la tipica madre rompicazzo. Non che ne vada orgogliosa, ma vedo nel mio modo di pensare e di agire tutti i campanelli d’allarme di una madre cagacazzo in potenza: ho poca pazienza, pretendo che le cose vengano fatte a modo mio, spesso credo di sapere meglio degli altri cosa sia meglio per loro… Insomma, potrei redigere il decalogo delle madri rompicoglioni senza nemmeno avere figli.

Tuttavia, speravo che la metamorfosi completa, il passaggio da persona pseudo-normale a madre insopportabile, non sarebbe avvenuta fino alla procreazione, e alla successiva entrata de l pargolo nella pre-adolescenza.

E invece no, mi ritrovo a fare i predicozzi e le paternali a un 34enne figlio altrui. Un’adozione involontaria, insomma. Quasi accidentale.

Ma non voglio dilungarmi troppo sul tema, e la quarantena esaspera certe disfunzioni della coppia. Solo l’altra settimana una amica che convive già da tempo mi diceva che sta seriamente pensando di mandare la dolce metà a fare in culo e di starsene da sola, stufa di avere un automa seduto sul divano, eternamente attaccato al cellulare e incapace di svolgere qualsivoglia attività domestica basica (si parla di sostituire il rotolo di carta igienica finito, per capirci, non di demolire una parete e creare un open space al primo piano della casa).

In epoche normali, pre-quarantena, mi sfogavo di queste spinosissime questione con Ali, la quale mi dava manforte raccontando i comici e disperati tentativi del suo fidanzato di pulire il ripiano della cucina con un panno asciutto. Beh, che dire, di sicuro così riuscirai a rimuovere efficacemente le macchie d’olio e di salsa di pomodoro!

Ora, però, abbiamo abbandonato il tema, perché ci sentiamo solo su Skype, sempre con le corrispettive dolci metà a un metro di distanza.

Per il resto, ieri sono stata brava e diligente ed ho fatto “attività fisica”. Le virgolette sono necessarie, perché quel che ho fatto è stato scaricare una applicazione che promette di farti perdere peso camminando. Praticamente è un timer che ti incita, con una voce tipo quella del GPS, a camminare più o meno velocemente per circa un’ora. Meno male che il mio appartamento è piccolo ma lungo. Le poche stanze sono distribuite lungo un corridoio, quindi di spazio per camminare ce n’è abbastanza. Ciò non toglie che ho provocato non poco sgomento e preoccupazione nel gatto e nei cani, che non sapevano come interpretare il fatto che la loro proprietaria camminasse avanti e indietro per il corridoio come una decerebrata.

Lo so cosa state pensando, camminare è uno “sport” da ottuagenari, ma io non sono allenata, e la gran parte degli esercizi fisici mi annoia a morte. Mi piace solo camminare o fare aerobica. E dato fare aerobica in una stanzetta minuscola col mio fidanzato mi fa sentire a disagio (e dire che mi ha vista sboccare l’anima e – in generale – ha presenziato a una buona fetta dei miei momenti più umilianti, ma farmi vedere mentre saltello e faccio il mambo o lo step touch è davvero troppo), ho deciso di abbinare camminata + 100 addominali e qualche esercizio per i glutei. Cercherò di mantenere questa routine per una settimana, e poi, approfittando dell’assenza di P. per lavoro (si assenta una settimana sì e una no), tornerò alla mia amata aerobica. La routine della camminata, dato che è molto “soft”, la manterrò anche nella settimana dedicata all’aerobica.

Reduce dalla pizza fatta in casa del giorno precedente, ieri mi sono comportata bene ed ho mangiato sano, soprattutto a cena. Non so perché, infatti, ma è quasi matematico che finisca a mangiare gli alimenti più grassi, calorici ed indigeribili sempre per cena, con conseguenti notti insonni e strati di adipe che si depositano sulle mie terga.

Ovviamente ho passato comunque una notte insonne, nonostante avessi mangiato spinaci e prosciutto crudo, e mi sono svegliata con la pancia gonfia manco mi fossi scofanata una cassa intera di birra e con gli occhi gonfi come zampogne (e questa davvero non me la spiego. O due zanzare si sono messe d’accordo per pungermi ciascuna in una palpebra o devo aver fatto un incubo, poi prontamente rimosso, in cui ho pianto come una dannata).

Sia come sia, la verità è che oggi sono di buon’umore, ho completato un lavoro, sono determinata a continuare la routine di attività fisica e in breve mi metterò a cucinare una deliziosa (si spera) parmigiana di melanzane.

Besitos, Deli

P.s. alla fine mi son comprata un romanzo della Ferrante…un capriccio da quarantena!

Facciamo il punto della quarantena

Se non ho fatto male i conti, cosa possibilissima data la mia discalculia auto-diagnosticata, siamo rinchiusi (qui in Spagna) da 40 giorni.

All’inizio della quarantena ero terrorizzata per i miei genitori in Italia; le notizie che arrivavano da lì erano drammatiche, ogni sera vedevo il tg di Mentana con la conta degli infetti e dei deceduti.

La paura rimane, ovviamente, ma -per assurdo che possa sembrare- ci si abitua a tutto, persino a vivere chiusi in casa, a portare la mascherina e i guanti ogni volta che si esce. In alcuni momenti è quasi come se il cervello dimenticasse che c’è stato un “prima”: diventa normale sedersi al tavolino del salotto davanti al portatile per lavorare, cucinare molto di più di prima, vedere tantissima televisione, avere appuntamento con una amica per chiacchierare su Skype anziché al bar, davanti a una tazza di caffè.

Ci sono state fasi in cui avevo molta voglia di fare, di cucinare ricette nuove, di fare sport in casa e di riordinare, alternati a momenti di crisi a a caso in cui iniziavo a incazzarmi e/o a piangere senza apparenti motivi. La fase dell’attività fisica è stata quella che è durata meno, ovviamente, anche perché vivo in un appartamento minuscolo, e sgambettare senza alcuna coordinazione mentre cerco di riprodurre una coreografia di aerobica davanti al mio fidanzato, arenato come sempre sul divano a giocare alla Play, è piuttosto umiliante. Non per nulla il picco dell’attività fisica è stato nella settimana in cui lui era assente per lavoro.

Avrei voluto leggere moltissimi libri in questa quarantena, e invece sono sempre alle prime pagine di Caporetto; volevo concentrarmi sui libri che ho già in casa, su questo in particolare perché è un regalo di una amica e so che ha fatto fatica a reperirlo, ma la verità è che vorrei potermi immergere in un romanzo alla Elena Ferrante, una di quelle storie che ti rapiscono dalla prima pagina e non ti mollano fino all’ultima. Insomma, una piccola fuga in un mondo alternativo.

Per il momento, invece, il maggior strumento di fuga è Netflix, con la visione ossessiva di Sons of Anarchy, per cui all’ora di pranzo c’è tutto un concerto di sparatorie e minacce sussurrate con voce roca in salotto.

Il mio fidanzato è in ferie da 15 giorni, per cui stiamo insieme h24 da ben due settimane. Non ci sono stati enormi litigi e discussioni, il che non è un brutto presagio, ma confesso di avere una gran voglia di passare una settimana da sola con il gatto e il robottino lavapavimenti, senza una persona inchiodata sul divano a giocare alla Play e senza i cani che spargono incessantemente pelo e fanno rumore con le zampe contro il pavimento o sbattendo la coda contro i mobili.

C’è poco da fare, a me la solitudine piace, e anche parecchio. Non nego che in momenti di crisi emotiva, qualora vivessi sola, cadrei facilmente nel vittimismo della povera derelitta abbandonata. Mi conosco fin troppo bene e so di avere un talento innato per lamentarmi di qualsiasi cosa e in qualsiasi frangente. Però mi piace proprio tanto andare a letto la sera e spaparanzarmi a mio gusto nel letto, dovendo adattarmi unicamente alle necessità di Sua Maestà il Gatto, che vuole dormire al centro del letto, appiccicato alle mie gambe. Adoro cucinare e ascoltare nel mentre un video di YouTube, senza che il mio fidanzato si infastidisca perché il volume è troppo alto o mi inizi a parlare e a fare domande invece di lasciarmi ascoltare in pace. Mi piace infilarmi nella doccia e starci per delle ore, uscire avvolta nell’asciugamano e buttarmi sul mio enorme divano a vedere una serie che mi piace, non la unica serie tra un milione che è riuscita a mettere d’accordo sia me che lui.

Tuttavia, per assurdo che possa sembrare, questa quarantena mi ha anche fatto riflettere su me stessa, riaprire cassetti della mente chiusi da tempo, contenenti i ricordi di amicizie fallite o lasciate naufragare. Non è stato qualcosa di volontario, anzi. Ho fatto di tutto per estraniarmi, per non pensare, ma che volete che vi dica, il mio cervello ha deciso che la quarantena era il momento ideale per rimettere in scena i miei errori passati, ed ho capito, ancora una volta, che i rapporti vanno coltivati, che devo imparare a essere più sensibile nei confronti dei sentimenti altrui, che a volte pecco di egoismo, egocentrismo. Cerco di mettere tutte queste consapevolezze sulla bilancia, senza dimenticare il contrappeso su cui il mio psicologo insisteva sempre, anni or sono: “Sei troppo severa con te stessa”. Forse sono il giudice più severo con me stessa, e rifletto i miei giudizi crudeli negli occhi altrui, allontanandosi.

Ora di pranzo, vi saluto, vado a soddisfare la mia voglia di verdure dopo la caterva di pizza ingerita ieri sera.

Besos, Deli

Autodemolizione un corso

Da un paio di giorni é un corso nel mio cervello un processo inquietante che mi induce a valutare me stessa e le mie azioni degli ultimi anni gingendo a catastrofiche conclusioni.

Ripenso a tutte le volte in cui avrei potuto tacere e invece ho detto qualche stronzata, penso a come in questi cinque anni di vita all’estero ho perso decine di occasioni di creare rapporti di amicizia per i motivi più assurdi (vergogna, paranoia, apatia, condizionamenti).

Ripenso alle decisioni più o meno decisive che ho preso e mi sembrano tutte sbagliate. Allo stesso tempo, nessuna sembra essere realmente mia.

Mi rendo conto di farmi trascinare dagli eventi, dalle situazioni, di subire fortissima l’influenza di chi mi sta attorno, quello che io percepisco come un giudizio marcato a fuoco sulla mia fronte.

Quando sento che ormai quel giudizio é irrimediabile, semplicemente evito, fuggo, mi allontano, ritaglio spazi nella mia mappa mentale che ritengo ormai inaccessibili.

Quel che é peggio é che quando guardo indietro non mi riconosco, non vedo me stessa nelle azioni e nelle decisioni, ma solo una versione di me alle prese con le circostanze e le pressioni esterne del momento.

Adoro mio padre, ma ha sempre una parola cattiva per tutti, una critica gratuita, una frase sgradevole pronta nel cassetto per smontare qualsiasi entusiasmo nascente.

Lungi da me improvvisarmi Freud, ma la mia mente traccia un inevitabile collegamento tra l’atteggiamento di mio padre (che ancora oggi, a 31 anni, dopo 5 anni di vita all’estero, continua a farmi piovere giudizi dall’alto su ogni singola decisione della mía vita) e la mia tendenza a pentirmi di ogni scelta, rimuginare per ore per poi prendere comunque la decisione erronea e a vergognarmi sempre come una bambina scoperta con il barattolo di Nutella in mano.

Ma se questa puó essere una spiegazione, di certo non é la soluzione a quest’ansia perenne, a questa constante allerta, alla tendenza sempre più forte a sfuggire al confronto, a rinchiudersi in una eterna quarantena dove basta un click per “spegnere” le relazioni sociali quando diventano troppo faticose.

Sono passati davvero parecchi giorni dall’ultimo post, ma proprio non mi abituo a scrivere qui. Su iobloggo mi sentivo a casa, sapevo più o meno chi mi avrebbe commentato, curiosavo tra i blog conosciuti prima di scrivere sul mio. Qui invece mi trovo davanti una pagina bianca asettica, e mi pare di scrivere a vuoto, che non traspaia nulla di me da queste pagine.

Comunque, nonostante l’assenza prolungata, non ho moltissimo da dire. La quarantena continua, anche se in Spagna hanno già allentato leggermente le misure e più categorie di persone possono tornare a lavorare. Io sono rinchiusa in casa con P., il gatto e i cani, e i miei maggiori passatempi sono la rimozione di peli da qualsiasi superficie domestica (ma Amazon mi ha appena notificato la spedizione del robottino lavapavimenti, quindi è possibile che possa accantonare questo hobby vincente molto presto!), la visione di Sons of Anarchy (che ha rimpiazzato Gossip Girl perché francamente, col cazzo che convinco P. a vedere quella serie di merda), la cucina e qualche sessione di ginnastica domestica.

Ho anche letto alcune pagine di un libro, “Caporetto” di Alessandro Barbero, ma faccio fatica a concentrarmi. Non so come spiegarlo, sto abbastanza bene, in generale, ma a volte è come se avessi un mulinello in testa in cui rigirano senza sosta pensieri negativi, ricordi che risalgono all’era glaciale ma fanno ancora male come se fossero accaduti ieri, e a volte la centrifuga nel mio cervello è così violenta che, con una punta di colpevolezza, mi spaventa la fine di questa quarantena, mi spaventa tornare ad affrontare il mondo e mi sento perversamente cullata da questa pausa dal mondo.

Ma non mi va, ora, di scavare in questi tetri abissi della mia testa.

Meglio concentrarsi su cose più terra a terra, come il lavoro da casa, o smartworking, che a quanto pare è un pretesto per mandare lavori da sbrigare a qualsiasi ora e soprattutto in qualsiasi data, sia nel week end che durante le ferie (in 8 giorni di ferie, ho ricevuto lavori urgenti da sbrigare per 7 giorni, includendo un sabato). E infatti mi trovo a scrivere qui proprio perché una mail urgente mi ha obbligata a piazzarmi davanti al portatile alle nove e mezza, ed ora attendo che la mia collega completi la sua parte per fare la revisione e spedire tutto.

Besos, Deli